MUSEO CIVICO DI STORIA NATURALE
Ferrara - Italy

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Carla Corazza
Biologa, ricercatrice in ecologia del Museo di Storia Natura di Ferrara
La difesa della natura

La prima volta in cui raccontai a qualcuno dell’origine del mio interesse per la salvaguardia della natura fu quando, anni fa, Carla Corazza all'età di cinque anniun’insegnante di scuola media portò in Museo una sua classe per un progetto giornalistico. In quell’occasione, ma anche in questa, sono dovuta andare molto indietro nel tempo, nel cuore degli anni ’60.

Abitavo in città, in una casa piuttosto grande, acquistata dai miei genitori. La casa era indipendente su tre lati e aveva parecchio scoperto. Sul retro c’era un orto-giardino, curato solo in parte, con un albero di albicocche sul quale potevo arrampicarmi e sedere su di un ramo che sembrava fatto apposta. Sull’angolo opposto c’era un altro albicocco, molto più giovane e nato spontaneamente, che non venne mai innestato. Alla fine del giardino, sul confine con i vicini (un muro grigio), crescevano diverse piante di vite (uva fragola e moscato) curate da mio nonno prima e da mio padre poi, un cespuglio dai fiori bianchi che chiamavamo sirena (Philadephus sp.), che ad ogni primavera spandeva un profumo intenso, e uno di alloro, che bisognava sempre coprire con un telo di nylon, in inverno, perché allora gli inverni erano freddi e una pianta così mediterranea non avrebbe potuto sopravvivere.

E poi cespugli di rose, salvia, rosmarino, radicchio, pomodori... Per un certo periodo allevammo perfino le galline, pur essendo in città; il gallo no, quello dopo un po' si rivelò piuttosto molesto con i suoi canti all'alba e non fu possibile tenerlo.

Carla a sei anniC’erano angoli in cui cresceva l’erba, una volgare gramigna (Poa annua) che adesso, ovviamente, amo tantissimo: adoravo costruire mini-capanne con il tetto fatto di ciuffi d'erba, sorretto da legnetti incrociati. Le capanne ospitavano immaginari lillipuziani primitivi, impegnati in vicende avventurose e non sempre idilliache.

Trascorrevo lunghe ore ad osservare il comportamento delle formiche nelle guerre tra formicai rivali. Prendevo in mano i lombrichi senza timore, mentre mia nonna si mostrava terrorizzata. Un grande glicine ombreggiava lo spazio di lato alla casa e, durante la fioritura, veniva visitato dalle api e dai quei grandi insetti ronzanti, neri e pelosi, dalle ali bluastre, che facevano abbastanza paura (Xylocopa violacea). Le lucertole correvano qua e là, scampando ai gatti. Non era raro veder arrivare le damigelle, esili libellule dal corpo bandeggiato di nero ed azzurro: il Po di Volano non era lontano.

Ad un certo punto, però, in famiglia si cominciò a pensare di piastrellare gran parte dell'orto, per avere una superficie calpestabile. Io cercai strenuamente di oppormi ma allora non spiegai il vero motivo: la mia motivazione recondita era “Un giorno, questo potrebbe essere l’ultimo angolo di erba rimasto nel mondo”. Non lo confessai, sembrava un pensiero troppo grande per una bambina della mia età. E, pensandoci adesso, doveva essere in effetti una posizione filosofica piuttosto bizzarra, nel pieno del decennio del boom economico.

In realtà, non ho mai capito perché avessi già compreso i rischi della cementificazione e del consumo di suolo: l’unica ipotesi che posso fare è che io avessi interiorizzato qualche messaggio sulla difesa della natura, arrivato forse dalla TV, forse dalla radio ed approdato però su di una sensibilità pronta ad accoglierlo. Una sensibilità ambientale cresciuta grazie ai documentari sul mare di Jacques-Yves Cousteau, che guardavamo sempre insieme a mio padre.

Mio padre era un artigiano, pioniere del mezzo televisivo, del quale all'epoca vedeva con entusiasmo i risvolti positivi. Ricordo la sera in cui installò il televisore all'aperto sopra un altissimo trespolo, in modo che i cavi potessero raggiungerlo attraverso una finestra e noi potessimo assistere in diretta ma godendo della frescura dell'orto ad un evento davvero epocale: l'arrivo dell'Uomo sulla Luna, nella notte del 20 luglio 1969.

Carla Corazza, 2020Poi, analizzando tutto il mio percorso culturale e lavorativo ex post, come dicono gli economisti, lo posso vedere profondamente coerente: studi al liceo scientifico; una laurea in biologia ad indirizzo ecologico-sistematico negli anni ’80, quando eravamo soltanto in sette a seguire le lezioni di ecologia; quattro anni di lavoro come giovane ricercatrice precaria in università, impegnata in ricerche sugli ambienti salmastri del Delta del Po; e infine (ma fu un inizio) il ruolo di ricercatrice in ecologia nel Museo di Storia Naturale della città in cui sono nata. Non finirò mai di ringraziare mentalmente la segretaria dell'Istituto di Zoologia, che mi informò dell'uscita del bando per il posto in Museo, e anche il secondo classificato al concorso, che dopo la prova scritta avrebbe potuto intralciarmi e invece mi incoraggiò per l'orale.

Devo sempre a mio padre, che mi insegnava a distinguere i transistor tramite un codice a bande colorate, una certa propensione di base per la tecnologia e una spinta verso la razionalità, che mi ha reso naturale l'uso del computer fin dagli albori del PC e, nel 1998, mi ha fatta diventare webmaster del sito internet del Museo. Mio padre avrebbe voluto che studiassi matematica, la "scienza esatta" che lui, dislessico, studiò durante la seconda guerra mondiale, nel periodo in cui fu prigioniero degli Inglesi e condivise la prigionia con un professore di matematica. Fu un periodo della sua vita rimasto a noi per lo più oscuro, del quale ci rimangono i quaderni forniti dalla Royal Air Force, pieni dei suoi appunti scritti a matita. Per mio padre, le scienze biologiche erano troppo inesatte, ma si rassegnò: quando mi iscrissi a biologia mi regalò una copia del libro di Charles Darwin, l'Origine delle Specie.

Poco tempo fa, raccontai ad un amico della mia lotta d'infanzia per la difesa del pezzetto di prato spontaneo. Mi chiese: “Alla fine, chi ha vinto?”. Ho dovuto riconoscere che, alla fine, vinsero gli altri.

Ma non del tutto e non in maniera irreversibile: siamo sempre in tempo, quelle piastrelle furono solo appoggiate sul terreno e sono già state tolte restituendo il suolo sottostante, e l’albicocco, anche se ridimensionato, vive ancora (grazie a mio marito).

Carla Corazza, luglio 2020
 

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